Viaggio nel tempo a New York

Prima ricognizione ufociclistica a New York, 4 febbraio 2019

Report redatto da: Dafne Rossi

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Dafne trovò la sua bicicletta in una presunta ciclofficina, che altro non era che un negozio, che vendeva bici di tutti i tipi, situato nel quartiere più alternativo di New York, dove il concetto di alternativo è molto diverso da quello che abbiamo in Europa.

C’è un tizio biondo, con l’orecchino e lo sguardo penetrante, gentile e preoccupato per il destino di Dafne che si accinge per la prima volta a pedalare in una città che lui definisce pericolosa. Se sapesse cosa vuol dire andare in giro per Roma in bicicletta, non sarebbe così preoccupato.

La prima bici che le propone costa 80 dollari. Sostiene che è la bici più economica che ha. È messa bene ma il sellino è troppo alto. Fa per abbassarlo e la levetta si rompe.

Allora si avvicina ad altre due biciclette legate di lato, che costano meno, una 75 e l’altra 50. Indica quella da 50, e, quasi giustificandosi di non avergliela proposta prima, le dice “Quella bici è la più brutta che ho”. Dafne invece sa già di aver trovato la sua bici. Bella non la diresti, ma nemmeno così orrenda. E sembra messa bene, catena e pignone nuovi, manubrio comodo, sella morbida anche se un po’ strappata. I fili dei cambi non sono messi benissimo, ma l’importante è che funzionino i freni. I fili dei freni sembrano buoni, ma sono ricoperti da una patina nera. È questo forse il problema di questa bici. Qualcuno l’ha dipinta di nero senza scrostarla prima e senza smontarla e ci sono macchie di vernice anche sui cerchioni. Dafne ha qualche secondo di titubanza. Il dubbio le viene. Però questo è pur sempre un negozio, e poi la gente fa di tutto alle bici, non è detto che sia…

Lascia la borsa nel negozio e va a farsi un giro. È proprio la sua signorina. Non ha più dubbi. I freni inchiodano. Il sellino va un po’ alzato ma la levetta sembra a posto.

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Riprende la borsa, saluta il tizio, e parte. Parte per la sua prima ricognizione ufociclistica a New York. Che non ha un percorso prestabilito e non ha una mappa perché c’è un’intera città da esplorare. Dafne se ne va a zonzo senza mèta. Gira a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra. È così facile, ci sono piste ciclabili per strada, dove queste mancano, lo spazio tra le auto parcheggiate e quelle che camminano è abbastanza grande per farla passare, in alternativa i marciapiedi sono così larghi. La città è tutta piatta o quasi, e le strade perfettamente a griglia. Niente curve pericolose. Per i ciclisti è una specie di paradiso, anche se non troppo divertente. Passa davanti a parchi giochi per bambini e campetti di palla a canestro recintati da reti metalliche. Arriva davanti a un parco, dove sul marciapiedi ci sono panchine di legno colorate. C’è una metropolitana. Non sa dove la porterà. Ma vede una ragazza che trasporta una bicicletta giù per le scale e parte anche lei.

Qui iniziano i problemi. Innanzitutto nelle metropolitane di New York la scala mobile è una specie di illusione ottica. Non esiste se non in pochissimi casi. Inoltre lo spazio del tornello è minuscolo, impossibile far passare la bici sotto la sbarra, e a farla passare nel modo giusto, la bici resta incastrata. Per entrare la aiuta un tizio che le apre la porta di sicurezza. La porta di sicurezza è usata da moltissima gente sia per entrare che per uscire dalla metro. Per alcuni è una minor perdita di tempo e una comodità maggiore, per altri è un modo per non pagare il biglietto. Dafne non se la sente per il momento di usarla perché non sa mai quando potrebbe esserci la polizia dietro l’angolo. Deve abituarsi prima. All’uscita tenta di far passare la bici al tornello, così semplicemente, come farebbe lei da sola senza la bici. E resta incastrata.

In suo soccorso arriva una signora, che resta lì ferma cercando di aiutarla ma senza sapere cosa fare. A New York tutti si preoccupano per te, sono tutti gentili, anche quando non sanno cosa fare. Nessuno ti dice mai di no, nessuno ti manda a quel paese, nemmeno nelle situazioni più imbarazzanti.

In un impeto di atletismo, Dafne si arrampica sul pedale della bici e, tenendosi alle pareti del tornello, finalmente riesce a disincastrarsi e ad arrivare dall’altra parte. Ora il problema è la bici. La solleva, sotto indicazione della signora, ma il pedale cozza contro la sbarra. Ed ecco finalmente la salvezza. Un ragazzo che sta uscendo dalla metro in quel momento, la solleva dall’altra parte e la libera.

Dafne è quasi commossa, per un attimo ha pensato che non se ne sarebbe mai andata da lì. Si profonde in mille ringraziamenti per la signora e per il suo salvatore, mentre la donna continua a ripeterle che la prossima volta deve usare la porta d’emergenza. E in effetti, pensa, se la bicicletta è permessa sul treno, ci sarà pure un modo per farcela entrare.

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Finalmente all’aria aperta, realizza di essere a Brooklyn, quartiere un po’ periferico, solo di recente “gentrificazione”, con case basse e cortili. Nella sua testa prende forma un’idea e si dirige verso il ponte. Ma non si concentra ancora una volta sulla strada. Costeggia il porto, non vede mai il fiume. Arriva a uno dei tanti punti di bike sharing sparsi per la città e da un’occhiata alla mappa. Deve tornare indietro.

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Continua per un po’ sulla sua strada e… di colpo il luogo è cambiato. È come in un altro spazio, in un tempo antico. È in un porticciolo di mare, col molo, le casette dei pescatori, la spiaggetta, un ristorantino, panchine di legno. C’è un vecchio tram parcheggiato, come lasciato lì in esposizione, sembra essersi fermato lì anni prima, e non essersi più mosso da allora.

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C’è una fontanella, ma l’acqua non esce.

L’idillio finisce presto. Svanisce dietro muri di cemento, container, reti metalliche. Dafne continua a pedalare, entra nel porto da un cancello, esce da un’apertura della rete. Continua a pedalare su una pista ciclabile ancora in fase di realizzazione, che corre in mezzo a una strada asfaltata.

Poi ricomincia l’idillio.

Ora sembra di colpo proiettata nel futuro. Ci sono dei lunghissimi moli che penetrano nel fiume. Più in là vede degli ombrelloni azzurri. Sembra una spiaggia. Si avvicina. Non lo è. Realizza che gli ombrelloni sono incastrati in tavoli di legno, corredati da panchine. Le panchine sono rivolte verso un immenso campo di calcio, che, come un molo lunghissimo, penetra anch’esso nel fiume. Di fronte, sull’altra riva, ci sono i grattacieli, che sembrano così vicini, come se il campo ne fosse circondato.

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Dafne fa il giro del campo e si accorge che in realtà i campi sono due, su uno stesso terreno e che si stanno giocando due partite diverse nello stesso momento.

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Nell’acqua ci sono postazioni per la pesca. Blocchi di cemento galleggianti. E, appeso sopra un enorme lavandino, un cartello dice che lì si può lavare il pesce pescato. Dafne si chiede seriamente chi mangi il pesce di Manhattan.

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Ma il suo pensiero si rivolge a qualcos’altro.

Sulla sinistra, di fronte a lei, c’è la statua della libertà. È in mezzo all’acqua, su un’isoletta, di cui per la prima volta ha percezione. Altre volte l’aveva vista come se fosse su una protuberanza della riva.

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Aveva sempre pensato che il colosso di Rodi avesse una vaga somiglianza con la statua della Libertà. Per questo era convinta che non fosse mai esistito e che fosse solo un’invenzione per attrarre i turisti. Peraltro non c’erano prove della sua esistenza. Ma non divaghiamo.

La statua della libertà le fa pensare alla Tour Eiffel di Parigi. L’aveva vista da ogni angolo di Parigi e da tutte le prospettive prima di arrivare ai suoi piedi. In fondo una cosa in comune i due monumenti ce l’hanno, lo stesso architetto, e probabilmente, sono state costruite con lo stesso scopo.

Un’altra analogia che New York ha con Parigi è la struttura delle strade. Come la città francese ha le sue lunghe e larghe boulevard, così New York ha le grandi Avenue che attraversano la città da Nord a Sud e incrociano perfettamente con le altrettanto lunghe, ma più ristrette Street che hanno un andamento est-ovest, in sostanza la città ha una struttura a griglia. A parte un unico e solo palazzo, ogni casa o edificio che cozzava con questa struttura perfetta, è stato abbattuto. Lo scopo è uno solo: disgregare, disperdere, distruggere ogni forma di comunità. Per questo, come si diceva prima, è un paradiso per i ciclisti, ed è una città in cui non ci si perde, ma è un posto che probabilmente ha perso qualcosa di importante nel tempo..

Persa in questi pensieri, Dafne va avanti e, sempre con lo sfondo dei palazzi, vede davanti a sé il ponte di Brooklyn.

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New York non ha più di duecento anni. Eppure si può dire che sia una città antica. Tutto quello che la fa andare avanti, è rimasto più o meno come era all’inizio del Novecento e ne costituisce l’attrazione principale. I ponti, i treni, perfino le montagne russe di Coney Island, costruite in legno e ancora funzionanti. Così i primi grattacieli costruiti sono estremamente diversi da quelli in vetro più recenti.

Anche il ponte di Brooklyn da questa impressione. Le torri in cemento, i tiranti d’acciaio.

Dafne si avvia lungo un marciapiedi su una strada contromano per trovare l’accesso al ponte. Sulla sua strada incontra dei stranissimi vegetali blu.

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Pensa di essersi sbagliata, ma le indicazioni la portano verso là. Deve attraversare la strada e raggiungere la pista ciclabile centrale, ma c’è una lunga fila di gard reil che non può superare. Al semaforo finalmente attraversa, quando vede due ciclisti che fanno la sua stessa strada.

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Sono le cinque del pomeriggio di una calda e soleggiata giornata invernale, come ce ne sono poche a New York, e il sole si appresta a tramontare, quando Dafne si ritrova sulla ristretta e affollatissima pedana in legno dove circolano pedoni in contemplazione di ogni nazionalità e ciclisti frettolosi che forse tornano a casa dal lavoro.

Il panorama sarebbe bellissimo se non ci fossero le auto sotto. La pedana cammina sopra il passaggio delle auto, e sotto il traffico è spaventoso. Lassù, invece, sospesi nel cielo, il sole regala i suoi ultimi raggi rosati, colorando i grattacieli, l’acqua, i tiranti.

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Dafne atterra sull’asfalto mezz’ora dopo, nei pressi del City Hall Park.

Trova una metro e vi sale per tornare a casa. Stavolta solleva la bici, e anche se con un piccolo aiuto, riesce con un po’ di difficoltà a farla passare dall’altra parte. Prende prima un treno, poi cambia per prendere l’N e tornare nei pressi di casa sua.

La passerella è troppo ristretta e una folla di gente che torna a casa dal lavoro, la riempie del tutto. Inutile che dal megafono partano continui avvisi di stare dietro la linea gialla. È praticamente impossibile.

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Dafne va avanti e indietro, e finalmente trova uno spazio libero.

E qui fa il suo primo incontro con un’aliena. Una ragazza che in mezzo a quella folla deve apparire davvero aliena, esattamente come Dafne. Sostiene una bicicletta con il manubrio perfettamente dritto, un po’ più piccola e forse un po’ più pratica di quella di Dafne. La ragazza è vestita sportiva, con i calzoncini corti, e ha i capelli annodati in minuscole treccine. Quando il treno arriva fa segno a Dafne di entrare insieme a lei e di mettere la bici parallela alla sua appoggiandola al palo. Pur con tutta la folla, riescono a ritagliarsi il loro spazio, e nessuno protesta, tranne una signora che, in maniera gentile, fa notare che è rimasta imprigionata tra le bici e ha bisogno di scendere alla fermata successiva. La ragazza la guarda con sguardo rassicurante e le promette che la farà scendere.

Quando il treno arriva nei pressi di Queensboro plaza, è come sospeso in aria, in mezzo ai grattacieli dei quali si vedono da vicino persino delle porte rosse di quelli che sembrano uffici. Sembra quasi che ci si possa entrare dentro. Dafne è sempre in contemplazione, la ragazza nota la sua sorpresa e le dice di guardare il tramonto che da qualche parte deve essere ancora in corso. In effetti da qualche parte il cielo è ancora rosa.

Dafne guarda la ragazza e le chiede “Fai questo tutti i giorni?”.

Lei annuisce e le dice, “Sono stanca.”

Scendono alla stessa fermata, la ragazza la saluta e sparisce. In mezzo alla folla che ogni giorno attraversa New York da Nord a Sud.